29 marzo 2007

Lisbon Story

Parliamo di LISBON STORY
Dei titoli di testa, da Berlino a Lisbona in auto: inquadratura fissa dal cruscotto in avanti e la radio che attraversa le frequenze di quattro stati.
Di grana dell’immagine, quella liscia del film intorno, dorata delle riprese antiche di Friedrich e a punti dei bambini.
Parla di … niente. Della crisi artistica di un regista che troviamo solo alla fine della pellicola. Che si interroga sulla necessità del suo lavoro, sul vedere come violare. Sulla visione inconsapevole come unica e sacra possibilità.
Crisi ripercorsa e scandita dai versi di Pessoa
Sebbene fosse nato cieco, non si può sapere cosa vedesse

Nell’ampia luce del giorno, anche i suoni splendono

Ascolto senza guardare, e così vedo
Parla del protagonista che vaga per Lisbona ascoltandola. Suoni indifferentemente tedeschi, inglesi e portoghesi -come in altri film di Wenders- I suoni dell’assenza di Friedrich. Un sodalizio artistico a distanza.
Un film di suoni. Strano.
Un monologo di Manoel de Oliveria che, artista, si interroga sulla piccola mania umana di creare mondi:
Noi… noi vogliamo imitare Dio
Perciò esistono gli artisti
Gli artisti vorrebbero ricreare il mondo,
come fossero piccoli dei.
E fanno una serie… un costante ripensare … sulla storia, sulla vita su tutto quello che succede quaggiù.
O su quello che la gente crede sia successo
Solo perché crediamo…. Si, alla fin fine noi crediamo nella memoria
Perché tutto è passato.
E chi ci garantisce che quello che immaginiamo sia passato, sia passato realmente?
A chi dovremmo chiedere?
(Guardando in camera)
Questo mondo, questa ipotesi… allora è un’illusione.
La sola cosa vera è la memoria
ma la memoria è un’invenzione

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